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10/02/2024

Il racconto di Lorenza Garufi, oncologa in missione con AFRON

YOUR HEART, MY HEART, IT'S THE SAME



Quante volte ho sentito parlare con un misto di ammirazione e sana invidia chi si reca in Paesi a rischio o in via di sviluppo per portare aiuto e sostegno, io che sono una a cui piace stare comoda e che non aveva mai preso un volo intercontinentale….

Ad un certo punto, facendo contatto con una parte profonda ma molto solida di me, grazie a una serie di eventi concatenati e risultato di scelte talvolta non facili, nel mio percorso di vita mi imbatto in Titti, presidente AFRON. In lei, così diversa da me per età, background sociale e culturale, io rivedo il fuoco che accomuna tutti quelli la cui vita rispecchia esattamente la forza della loro passione; io quel fuoco ho imparato a vederlo perché io stessa ho la fortuna di vivere nella mia quotidianità un mestiere che amo profondamente e che non è solo un lavoro per me.

Titti mi spiega quale è la mission di AFRON e mi mette subito in chiaro che quella di Febbraio non sarebbe stata una missione sanitaria; per me, mai stata in Africa, era comunque consigliabile partecipare per iniziare a entrare nella mentalità e nel modo di vivere di un popolo così diverso da noi. Non posso che accettare ed è stata una delle scelte migliori che io abbia fatto, come sempre quando la scelta viene dalla pancia e non dalla testa.

Questo è stato il viaggio delle scoperte ma anche delle conferme: la scoperta di un Paese con la terra rossa, che rende il panorama così diverso da quelli a cui siamo abituati noi, una coltre rossa che ricopre le strade e che richiama il fuoco della vita; la scoperta di un’aria calda ma per fortuna non eccessivamente afosa (quanto meno non nella nostra settimana!), di un sole brillante e di tanto verde che mi ha ricordato la mia Sicilia; la scoperta dell’opportunità di vivere un concetto diverso di tempo, in cui non c’è la frenesia di rispettare la scaletta degli impegni perché se no chissà che succede, dell’accettazione delle cose così come accadono perché spesso non si possono cambiare; la scoperta che è vero che esistono paesi in cui non tutti hanno le stesse opportunità di curarsi, studiare, mangiare, avere una casa, amare liberamente chi vogliono, che non è una invenzione della televisione; la scoperta che il cancro è davvero una emergenza anche in Africa, come se lì non avessero già abbastanza problemi. 

Con le scoperte, molte di più di quelle che ho elencato ma ancora da elaborare, ci sono state anche le conferme: io, che ho già esperienze di volontariato in diverse associazioni tra la Sicilia e il Lazio, ho potuto vedere ancora una volta come persone diverse per età, titolo di studio, contesto familiare e sociale, nel momento in cui si trovano in un ambito di volontariato sono unite da un filo invisibile ma comune che le rende come un unico corpo con un unico cuore, con lo scopo finale di aiutare gli altri e risollevarli dalle loro pene, anche se solo per poco: è stato così con le mie fantastiche compagne di viaggio Titti, Simona, Donatella e Cecilia, con le quali è stato unico e irripetibile organizzare la festa dei bambini il 15 febbraio, ballare e giocare con loro, vederli tutti in fila ordinati in silenzio aspettare il loro turno per prendere la busta con i regali per loro; tutte noi ci siamo emozionate insieme durante i giri nel reparto del Lacor Hospital o quando ho visitato i due bambini nei villaggi l’ultimo giorno: io ero il medico, loro le volontarie che assistevano, facevano foto, aiutavano per come era loro richiesto, ma la forza dei sentimenti che provavamo era la stessa.

Il momento più emozionante in assoluto è stato quando siamo state nel secondo villaggio per la visita di follow up di una bambina di 11 anni, guarita dal Linfoma di Burkitt da quasi due anni: lei, che si porta ancora i segni del trattamento con esiti fisici che compromettono la sua qualità di vita, non mi guardava nemmeno mentre la visitavo, tanto era provata e a disagio. Allora io tolgo il fonendoscopio dalle mie orecchie e lo metto nelle sue per farle sentire il suo cuore, poi sposto la campana del fonendo dal suo corpicino al mio per farle sentire il mio cuore e le dico: “Can you hear your heart? Do you hear my heart? It’s the same!”; e lei mi ha finalmente guardata. In quel momento ho vissuto sulla mia pelle il significato della parola empatia, è inutile riempirci la bocca di parole, sono i gesti concreti che ci mettono sullo stesso piano degli altri a fare la differenza.

Questa missione infine è una conferma per me che il mio lavoro è il più emozionante del mondo e che sono pronta per un’altra missione!

Lorenza 

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