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15/11/2018

CREATURE CON GLI OCCHI CHE BRILLANO

Il racconto di Antonella Savarese, oncologa volontaria in missione per AFRON



Giovedì. Ogni volta che atterro litigo con gli operatori della telefonia e giuro che sarà l'ultima volta che vedranno questa faccia di “muzungu” nei paraggi.

Però tornare qui dopo quattro anni e non sentirli è fantastico. Il fascino della condizione di “espatriato” sta a metà strada tra il privilegio e la ricerca. Non sai bene cosa di entrambe ti appartenga di più, ma ti muovi in un ambiente totalmente estraneo con la consapevolezza di essere diverso e al tempo stesso ti chiedi se in quel posto potresti anche metterci radici. Io non ho mai pensato di vivere qui, però ritrovo i luoghi che mi piacciono e li condivido ogni volta con persone diverse e divertenti. Sicuramente andare a Trastevere la sera mi stranisce di più.

Il risveglio da queste parti è ovunque lo stesso: uccelli fragorosi all'alba che lasciano posto ai canti di chiesa. Questi ultimi non mi appartengono, ma ogni volta mi chiedo cosa ne sarebbe di questo paese senza la preghiera del mattino.

E comunque, come dice il giovane amico Joshua, medico spagnolo incontrato a Matany, stai pur certo che non devi mettere la sveglia neanche la domenica. Sarà per questo che qui alle 7.30 siamo sempre tutti lavati, e pronti? A casa mia non potrebbero crederci.

A Kampala però con i negozi di telefonia ti arrabbi davvero. Siamo 5 e a 4 di noi hanno venduto ricariche e SIM Card senza farci pagare la tassa governativa. Quindi abbiamo smartphone rombanti in pole position completamente muti. Se non lo sai sallo.

Riflettevo in macchina, trascinati nel vortice del mercato e dell'Uganda Cancer Institute, dove abbiamo un incontro di programmazione delle prossime attività (e forse qualche sassolino nella scarpa di Titti e Alessio), riflettevo dicevo che se ci perdiamo non ci possiamo cercare al telefono. Però, come funzionava quando eravamo ragazzini che non ti perdevi mai al mercato? Qui rispuntano le antenne, ce le abbiamo ancora. Ed io ho avuto linea dopo 3 giorni. Ormai già ripartiti; per Matany. Non si è perso nessuno, neanche i parenti a casa.

Matany. Mio marito a giugno ha fatto racconti affettuosi di questo luogo, poi ha comprato una padella nuova e si è messo a cucinare chapati. Poco ci mancava e faceva un sistema di raccolta di acqua piovana pure a Roma. Io ci arrivo insieme agli altri davvero esausta, dopo un viaggio che mi ha fatto pensare.

Abbiamo visitato un ospedale indiano lungo la via. Un uomo era caduto dal tetto di casa sua. Era completamente paralizzato dal collo in giù. Suggerisco una TAC un pò urgentemente, e mi rispondono che la faranno (quando?). Qualche anno fa avrei fatto arrivare i pompieri se necessario, oggi mi adeguo al sentire generale. E' una cosa molto seria, ma è vivo, faremo il possibile, who pays?

Io con la sofferenza dei pazienti ci faccio i conti tutti i giorni. Ed ho capito che la sofferenza è intensa per tutti allo stesso modo. E' uguale identica se sei nero e vivi in Uganda, se sei bianco e vivi a Balduina. Quello che cambia è l'aspettativa. Dove l'aspettativa è alta, molto alta, semplicemente la sofferenza è inaccettabile. E sembra far male di più.

Ma la strada per Matany è molto lunga, e davvero bruttina, e quindi riesco ad elaborare anche altri pensierini. Per esempio che un pò mi scoccerebbe farmi del male qui. Comunque il driver è bravo, evita con pazienza e autorevolezza le capre, le mucche, i motorini, i pedoni, i camion, i torpedoni e i fossi. L'unica cosa che non riesce ad evitare è un sassone, nel mezzo della strada (buia), nel mezzo della savana (buissima), sotto un temporale (ancestrale).

Anche la mia stanza è ancestrale. Dopo le otto di sera si toglie la luce nel compound degli ospiti. E' il prezzo da pagare per una scelta dell'ospedale di affidarsi alla sola energia solare. La lanterna a petrolio mi hanno dato! Come Florence Nightingale! Però condivido.

L'ospedale di Matany è fichissimo. Fisicamente è bello, ordinato, pulito, pieno di operosi personaggi tipici di qua, che fanno dei lavori di varia manutenzione che noi neanche capiamo (che c... stanno facendo quei due?).

Brother Gunter, che lo dirige, ha fatto delle scelte molto chiare e coerenti. Qui intorno c'è un territorio difficile, la gente è molto povera, il governo non è molto presente: rimbocchiamoci le maniche, cerchiamo l'autosufficienza con solare e acqua piovana, facciamo gli orti e la serra (la green house) per le necessità dei dipendenti e della scuola infermieri. E così tutti fanno qualcosa, a turno. Lui intanto cerca “donors”. E alleva capre, per iI latte ai bambini malnutriti che arrivano in pediatria. Ricordiamoci di lui, ogni tanto.

I ragazzi della scuola (infermieri in formazione professionale) sono bellissimi. 140 creature che mi commuovono per la loro grazia ed educazione. Vengo qui ad insegnare loro cosa è il cancro e come fare per prevenire e riconoscere. Ce lo chiede l'ospedale e volentieri spendo il mio tempo a montare e smontare sino all’ultimo istante le diapositive, per ritagliare il messaggio più efficace possibile. Loro ascoltano, si fanno coraggio e fanno domande intelligenti. Troppo intelligenti.

Conciliare possibilità e necessità di accesso alle cure da queste parti è una pratica funambolica. E loro lo sanno. Quello che non sanno è che probabilmente le loro madri inconsapevolmente preparano pasti al veleno e che il mondo si sta ammalando tutto della stessa malattia, ma solo i ricchi possono provare a difendersi. E' difficile separare il discorso sanitario da quello “politico”, lo sforzo maggiore è quello di renderli fiduciosi. Creature, creature con gli occhi che brillano in un futuro così globale che neanche riescono ad immaginarlo. Spero che imparino.

Titti e Carlino sono tornati dal primo giorno di screening per il tumore della cervice con tutta la task force sul campo. 126 donne in un giorno e non un fiato. Domani Karin leggerà i vetrini, qualcuna dovrà essere richiamata, ha lesioni che devono essere curate in tempo. Birretta? Why not. Bella gente.

Che fico! Un aeroplanino ad elica mi preleva dal nulla di una pista di terra battuta nella savana e mi porta all'aeroporto di Entebbe per rientrare a Roma. Bagaglio di 7 kg. Non mi serve di più. Però non pilotava Robert Redford, ma un olandese che per tutto il tempo ha chattato sullo smartphone. Multitasking.

Sono le cinque di giovedì. Nel buio un tassista (esoso) mi riporta a casa. Ascolta musica dei Pink Floyd: Us and Them.

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